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Riprendo qui di seguito, la dissertazione a proposito della lingua e delle sue perle, le parole. Incominciamo da molto lontano nel tempo, in Europa, per valutare assieme come la lingua che contraddistingue una popolazione spesso sia soggetta a sottomissione politica o si racchiuda e “concluda” nei salotti buoni, tra i cosidetti “dotti”, diventando lontana dal’uso quotidiano e spicciolo.

Durante i secoli della dominazione romana, il latino s’impone sulle lingue locali in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Romania, mentre nella parte orientale dell’impero si conserva la lingua greca. Quando l’impero di Roma  crolla, le lingue occidentali, parlate prima dell’egemonia latina, prendono il sopravvento e mescolandosi col latino parlato (assai diverso da quello scritto di Virgilio, Orazio o Cicerone) determinano le nuove lingue romanze o neolatine.

In Francia, a nord si parla il gallo-romanzo, antenato del francese, a sud il provenzale; in Spagna, al centro, lo spagnolo o castigliano, sulle coste atlantiche il gallego, antenato del portoghese, ad est il catalano (simile al provenzale); in Romania i contadini conserveranno la loro lingua di origine latina, che diventa ufficiale nel XVI secolo.

In Italia riemergono i vari substrati pre-latini, che però restano per molto tempo senza scrittura, in quanto alle necessità dello scrivere – testi scientifici, filosofici, teologici, giuridici – continuano a provvedere col latino gli ecclesiastici. Tali substrati si mescolano con popolazioni straniere che vengono a stanziarsi nella penisola: Longobardi, Greco-Bizantini, Franchi, Arabi, per citare solo i più importanti. Da tutto questo si evince come risulti difficile ricostruire la nascita dei vari dialetti italiani.

In una situazione del genere, il latino parlato evolve inevitabilmente per conto suo, mentre la conservazione di quello scritto è ad opera prevalentemente della Chiesa. (Da sempre la nostra Penisola intreccia la propria evoluzione storica e sociale con la volontà della Chiesa, ma entrerei in un discorso diverso e intricato che lascio a chi ne sa più di me).La dicotomia tra parlato e scritto riproduce, in un certo senso, il distacco fra le élites dotte e le masse degli analfabeti: non a caso nella funzione della messa l’aspetto liturgico vero e proprio viene recitato in latino, mentre l’omelia è sempre pronunciata in volgare. (Fonte: Mineo e tali, 2009, Scrittura e culture: narrativa, attualità, scrittura, Palumbo, Milano).

Nella Penisola le prime parole in volgare, cioè nella lingua parlata dal popolo con forti connotazioni dialettali, si trovano in una serie di testi di matrice latina. Di regola i documenti che ci sono pervenuti sono stati compilati da persone che conoscevano perfettamente il latino e si sforzavano di comunicare in volgare, per fissare regole comuni, rapporti giuridici, contratti ecc. con  una popolazione che sempre meno parlava e comprendeva il latino.

Il famoso indovinello veronese, vergato da un amanuense che descrive con ironia la propria arte, risalente all’inizio del IX secolo: «Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba», manifesta una lingua certamente non più latina.

Da questo punto seguiranno altri documanti redatti in volgare e sempre più la lingua verrà convertita in un parlato quale atto sociale.

Naturalmente non sto dicendo niente di nuovo, mi piace pormi davanti a nuove prospettive: sono beneaccette altre considerazioni.